giovedì 7 giugno 2007

HANGING ROCK #1
Autodafè. Un alibi a futura memoria – parte 2

Perché la questione è tutta lì, sottesa tra il rhythm’n’blues del primo album dei Kings of Leon e lo scicchissimo ultimo disco dei Muse: musica e gruppi da sei e mezzo in pagella, ragazzi cresciuti sotto i colpi dei grandi maestri e con il rock come ambizione definitiva e a ogni costo, come alternativa a un futuro di alcolismo e pomeriggi piovosi delle periferie inglesi, o di violenza domestica e frittelle allo sciroppo nei crocevia della provincia americana. Tutti lì, perfetti e a loro agio con i media, senza una risposta sbagliata, pronti a inventarsi i più pittoreschi frangenti in cui nascono le proprie canzoni (prima o poi torneremo a sentire: stavo cambiando una lampadina nel bagno, sono scivolato, ho battuto la testa contro il lavandino ed è in quel momento esatto che ho avuto la visione del flussocanalizzatore che permette il viaggio nel tempo), cospargendosi il capo di cenere nel confessare che sì, certamente loro non stanno inventando niente con la propria musica, ma è il loro modo di esprimersi e di esprimere la loro visione del mondo, delle cose, delle persone. E allora, a noi dovrebbe stare bene che i loro compressori siano regolati sulle distorsioni alla Stooges vecchia maniera, che le loro vocette siano un misto tra Bowie quando era l’Uomo delle Stelle, Tom Verlaine della Televisione e le Trasformazioni di Lou Reed, che il loro andare a rimestare nel mare nero degli anni Ottanta sia la diretta conseguenza di una necessità di rivincita e di riabilitazione. Ottimi ingredienti, e chi lo vuole negare. Il problema è che nella quasi totalità dei casi, il risultato non è un gustosissimo milk shake da succhiare avidamente senza lasciarne neanche un goccio alla nostra ragazza, ma uno di quei cocktail in cui la diversa densità degli elementi non permette la miscelazione, e i liquori restano separati nel bicchiere, uno sopra l’altro, a formare una bandiera che non ha nulla della contaminazione: solo richiami isolati, reverberi di rassicuranti sonorità conosciute, che ci costringono a pensare ah però, che ficata, finalmente qualcuno che sa come rifare il suono garage dei tempi andati!
Tutti bravi, certo, belle canzoncine che animano le nostre giornate con le loro schitarrate senza una sbavatura, con i loro innesti elettronici, con i loro urletti da checche isteriche che hanno perso il lucidalabbra al lampone. Io li ascolto, tutti, molto, molto attentamente, cercando di aggrapparmi a ciò che mi possa sembrare degno di nota, pronto a infrangermi su quello che riesca ad alterare il mio ritmo cardiaco: metto su un disco dopo l’altro, come un cercatore d’oro in una vena arida. Setaccio, comincio a fare una prima scrematura. Poi mi accascio sul divano, parlo da solo della tecnologia che ci ha reso tutti musicisti e tutti uguali finalmente, in un grande trionfo di apparente comunismo pop, tutti in grado di costruire un giro di tre accordi, quattro parole non del tutto scontate, suonare dodici brani da tre minuti e mezzo e registrarceli da soli, mendicando poi l’ascolto di qualche scout di un’etichetta sconosciuta ma indipendente e fin troppo underground. E alla fine del mio patetico monologo la sintesi che si impone ai miei occhi e alle mie orecchie troppo educate, o troppo maleducate se credete, troppo snob e reazionarie, è che forse questa democratizzazione del rock non è che poi abbia prodotto grandi risultati. O meglio, in realtà la democratizzazione del rock è stata sempre e soltanto una bufala, o è durata davvero troppo poco.