domenica 1 luglio 2007

HANGING ROCK #1
Autodafè. Un alibi a futura memoria – parte 4

Ci ritrovammo tutti a rinchiuderci nel piccolo universo scolastico fatto delle inalazioni agrodolci delle palestre, del penetrante tanfo della gomma delle nostre scarpe da ginnastica logorate, delle scosse elettriche sconvolgenti lanciate dalla tempesta ormonale della nostra realtà di liceali che ancora dovevano imparare molto sull’igiene personale. E anche il senso delle grida e degli accordi mutò, riportandoci alle piccole incazzature da mocciosetti squattrinati e compromessi dalla cospirazione massmediatica ormai in pieno arrembaggio. Potevamo starcene lì nella nostra cantina, precariamente seduti sui vecchi bauli della nonna, e dire la nostra, con cassa e basso dritti come la traiettoria di un proiettile a urlare alla nostra maniera che non volevamo un’educazione, che la scuola e i prof ci avevano davvero rotto le palle, che quella della IV B è una stronzetta di cui non so che farmene visto che sta nel giro dei fighetti della scuola, ma purtroppo il mio cuoricino da ribelle di periferia non ne vuole sapere di dimenticarsela, forse per i suoi occhi, in fondo sinceri, forse per il suo sederino dorato e tondo, che fa sciogliere la mia corazza da teppistello, cosicché ora non me ne frega più niente né di chi parla di distruggere lo Stato, né di chi millanta una nuova soluzione finale, ora sono solo nella mia cameretta che cerco scampo alla mia cotta da adolescente brufoloso. In fondo tutto ciò ce lo avevano già raccontato i Buzzococks («Sei mai stato innamorato di qualcuno di cui non avresti dovuto?»), e oggi gliene rendiamo comunque grazie, per la magistralità del tocco, per le loro chitarre sbilenche e irriverenti.
È durato tutto così poco, giusto il tempo di illuderci che i veri detentori del potere potevamo essere noi: il mercato, la massificazione auditiva, i titani della discografia, avevano già tirato in secca le reti, appropriandosi degli slogan, delle creste colorate, dei vestiti consumati e sporchi, degli sputi dal palco, delle imprecazioni contro il pubblico, della platealità dei gesti. Avevano già cambiato lo scenario, per renderlo un po’ più morbido e accessibile, per spiegare anche alla mamma e al papà, che in fondo non c’è da meravigliarsi che i loro pargoli girino per strada con borchie e pettinature improbabili, con strane urla e rumori nelle orecchie, è una cosa a cui bisogna attribuire l’importanza giusta, cioè quella che possono dargli dei ragazzini che hanno bisogno di sentirsi in contrasto con la società, contro le quotidiane forme di autorità, ma che – tranquilli – è solo una fase della crescita. Non c’è da preoccuparsi, i trasgressivi idoli dei loro fanciulli sono stati oggi ampiamente studiati e controllati, sono stati creati su misura, sono la necessaria valvola di sfogo all’impeto giovanile, ma svaniranno nel giro di due o tre dischi, come da un giorno all’altro vostra figlia arriverà in cucina senza piercing sulle labbra, con i capelli del loro colore naturale e serenamente raccolti a coda di cavallo, dicendovi, con una strana luccicanza negli occhi, che inizia a sentirsi davvero donna e che vuole rinnovare il suo guardaroba.
Il musicbusiness si era preso tutto di nuovo, ci aveva tolto la sincerità dei cattivi odori della pubertà, la spregiudicatezza e l’imbecillità dell’adolescenza, aveva fagocitato la musica alternativa restituendo al mondo un suo prototipo anestetizzato, maggiormente accettato – un fenomeno di largo consumo da acquistare e metabolizzare nei centri commerciali – e spacciandolo come la vena antagonista all’interno del pop, con il geniale appellativo di indie music.
Il processo di globalizzazione sonora si è in poco tempo perfezionato: prendi quattro o cinque intrippati per il rock’n’roll, con il sogno della popstar rinchiuso in un piccolo angolino tra il fegato e lo sfintere, bellocci ma non troppo, digli che è la loro grande occasione, che il loro hardcore melodico è davvero fico ma forse non ancora abbastanza melodico, che sì, il cantante è bravo, interpreta i pezzi in modo decisamente intenso, ma che c’è bisogno di un corso di canto, giusto per fare il punto della situazione e imparare qualche trucchetto per la respirazione e per “risparmiare” la voce, per preservarla questa preziosa ugola dalla saliva d’oro. Poi un tocco di punk fashion, un nome per la band, aggressivo ma politicamente corretto, un buon ufficio stampa e il gioco è fatto. Siete la nuova realtà della costa occidentale, siete la punta di diamamte della generazione nascente, firmate questo contratto da tre dischi, et voilà: una finta democratizzazione, una falsa autarchia che come effetto finale hanno soltanto la saturazione della scena e del mercato pop dove il grosso e sferragliante cyborg dello showbiz sforna mese dopo mese le grandi rivelazioni dell’anno. E il bello è che molti di noi, forse per un po’, ci sono anche cascati.

domenica 17 giugno 2007

HANGING ROCK #1
Autodafè. Un alibi a futura memoria – parte 3

Quando dal ’77 agli inizi degli Ottanta – lasciando da parte il cancro della glam music dei capelloni impaillettati che iniziava a corroderci lo stomaco – tutti i giovani reietti volevano gridarci quanto fossimo privi di attributi, quanto ci nascondessimo dietro l’intoccabilità dell’aura rock, quando si inneggiava alla Rivolta Bianca, quando le manette non erano un problema, quando i Galli da Combattimento ci invitavano a guardarci le spalle perché la finta guerra che stavamo conducendo aveva nei giovani skin della working class britannica i nemici più audaci che ci avrebbero sorpreso a combattere per finte idee irrinuciabili, quando gli Sham 69 incitavano i ragazzi a restare uniti, forse solo allora, per un balenante attimo di reale pop-democrazia (o di quell’anarchia [sic] tanto desiderata e che sarebbe stata l’inizio e la fine di tutto), il punk ha rivelato che in fondo questo rock’n’roll – questa truffa, questa grande menzogna dove dirigere le nostre menti deviandole da tutte quelle che sarebbero dovute essere le nostre priorità vere – poteva farlo chiunque, in piena libertà, lontano dalle forzature mediatiche, dai giochetti da mercante in fiera di qualche discografico cocainomane e impotente, dalle convinzioni pseudoartistiche di qualche produttore frustrato. E un frammento di quello specchio, di quella scena che dalle periferie urbane rivendicava spazi all’interno delle mura delle città, rifletteva la luce anche nella nostra penisola, illuminando un manto maculato di realtà isolate ma dense di musica che più veloce non si può. Da Torino e Bologna a Bari, passando per il Virus di Milano, il Gran Ducato Hardcore della Toscana: fu una rapidissima scarica elettrica, con virate improvvise di tempi e accordi, partita dalla prima Negazione fino al Declino, quando la storia sociale tornava a imporre ingoi Indigesti, quando la provocazione dei Wretched si rendeva necessaria e sulla suburra romana svettava la bandiera Bloody Riot. Anche da noi ci fu chi pensò che la sopravvivenza di un vero circuito sotterraneo – dal pavimento di audiocassette casalinghe e vinili autoprodotti, dalle pareti rivestite di punkzine, dalle giornate spese nell’organizzazione di massacranti tour nella Germania ancora divisa, nella penisola scandinava (l’arrembaggio del punk all’Europa continentale), o nel tentativo di esportare il nostro hardcore oltreoceano – fosse possibile, come il lato incantato e seminascosto di una laguna artificiale dalle rive in cemento e fondali di eternit, sul sottofondo dei danzerecci cori di tutti i Kennedy Morti che intonano il più classico dei refrain: “Uccidi il povero!”.
Ma non durò più di un tiro di speed. E tutto il contorno di concerti finiti in rissa, di bottiglie spaccate su qualche testa fuori posto, di anfetamine assunte prima dell’arrivo della polizia, tutto il puro – innocente – piacere di scandalizzare qualcuno di noi borghesi troppo sensibile alla vista del tessuto nervoso, tutta l’essenza politica insita nell’autolesionismo che sfregiava i corpi magri e nudi (perché se è il nostro sangue che volete, lo avrete, ma siete disposti a pagare un prezzo così alto?), tutta la gratuità delle bestemmie e degli slogan senza futuro, tutta le urla fuori tono e fuori metro, tutta questa giostra primordiale e fai-da-te morì, vittima di se stessa e della propria rapidità incendiaria, nel frastuono atroce della metropoli, senza che il cadavere dell’enorme animale venisse mai più ritrovato. La rabbia ha poi ceduto il posto al compiacimento, al compatimento, alla posa di outsider sfigati e incompresi.

giovedì 7 giugno 2007

HANGING ROCK #1
Autodafè. Un alibi a futura memoria – parte 2

Perché la questione è tutta lì, sottesa tra il rhythm’n’blues del primo album dei Kings of Leon e lo scicchissimo ultimo disco dei Muse: musica e gruppi da sei e mezzo in pagella, ragazzi cresciuti sotto i colpi dei grandi maestri e con il rock come ambizione definitiva e a ogni costo, come alternativa a un futuro di alcolismo e pomeriggi piovosi delle periferie inglesi, o di violenza domestica e frittelle allo sciroppo nei crocevia della provincia americana. Tutti lì, perfetti e a loro agio con i media, senza una risposta sbagliata, pronti a inventarsi i più pittoreschi frangenti in cui nascono le proprie canzoni (prima o poi torneremo a sentire: stavo cambiando una lampadina nel bagno, sono scivolato, ho battuto la testa contro il lavandino ed è in quel momento esatto che ho avuto la visione del flussocanalizzatore che permette il viaggio nel tempo), cospargendosi il capo di cenere nel confessare che sì, certamente loro non stanno inventando niente con la propria musica, ma è il loro modo di esprimersi e di esprimere la loro visione del mondo, delle cose, delle persone. E allora, a noi dovrebbe stare bene che i loro compressori siano regolati sulle distorsioni alla Stooges vecchia maniera, che le loro vocette siano un misto tra Bowie quando era l’Uomo delle Stelle, Tom Verlaine della Televisione e le Trasformazioni di Lou Reed, che il loro andare a rimestare nel mare nero degli anni Ottanta sia la diretta conseguenza di una necessità di rivincita e di riabilitazione. Ottimi ingredienti, e chi lo vuole negare. Il problema è che nella quasi totalità dei casi, il risultato non è un gustosissimo milk shake da succhiare avidamente senza lasciarne neanche un goccio alla nostra ragazza, ma uno di quei cocktail in cui la diversa densità degli elementi non permette la miscelazione, e i liquori restano separati nel bicchiere, uno sopra l’altro, a formare una bandiera che non ha nulla della contaminazione: solo richiami isolati, reverberi di rassicuranti sonorità conosciute, che ci costringono a pensare ah però, che ficata, finalmente qualcuno che sa come rifare il suono garage dei tempi andati!
Tutti bravi, certo, belle canzoncine che animano le nostre giornate con le loro schitarrate senza una sbavatura, con i loro innesti elettronici, con i loro urletti da checche isteriche che hanno perso il lucidalabbra al lampone. Io li ascolto, tutti, molto, molto attentamente, cercando di aggrapparmi a ciò che mi possa sembrare degno di nota, pronto a infrangermi su quello che riesca ad alterare il mio ritmo cardiaco: metto su un disco dopo l’altro, come un cercatore d’oro in una vena arida. Setaccio, comincio a fare una prima scrematura. Poi mi accascio sul divano, parlo da solo della tecnologia che ci ha reso tutti musicisti e tutti uguali finalmente, in un grande trionfo di apparente comunismo pop, tutti in grado di costruire un giro di tre accordi, quattro parole non del tutto scontate, suonare dodici brani da tre minuti e mezzo e registrarceli da soli, mendicando poi l’ascolto di qualche scout di un’etichetta sconosciuta ma indipendente e fin troppo underground. E alla fine del mio patetico monologo la sintesi che si impone ai miei occhi e alle mie orecchie troppo educate, o troppo maleducate se credete, troppo snob e reazionarie, è che forse questa democratizzazione del rock non è che poi abbia prodotto grandi risultati. O meglio, in realtà la democratizzazione del rock è stata sempre e soltanto una bufala, o è durata davvero troppo poco.

mercoledì 6 giugno 2007

Il valore della provocazione

«Mi vuoi spiegare che succede? Prima il basco alla Che Guevara, poi torni a casa con i capelli verdi e i pantaloni a brandelli. Ora mi vieni con questo disco che sembra un manifesto del Fronte Nazionale! Mi vuoi spiegare che succede?». Questa era mia madre, ormai un po' di anni fa, mentre me ne stavo lì in cucina con il vinile di An Ideal for Living sotto braccio, la copertina bianca e nera con l'immagine del tamburino della Gioventù Ariana che ora si vede ogni tanto sui manifesti di Forza Nuova. Andateglielo a spiegare voi, andateglielo a spiegare il valore della provocazione. A lei, minuta professoressa di matematica, che guarda ogni giorno che dio manda in terra come un'occasione per migliorarsi. Come lo può – non dico giustificare – quantomeno comprendere il gusto di giocare al limite della correttezza? Mia madre, madre di tutti i figli italiani, mia madre attenta a carpire il mutare continuo delle nuove generazioni, mia madre progressista e moderata, mia madre cuoca eccellente, insegnante esigente ma comprensiva, mia madre ospite squisita. Come lo può comprendere il gesto estetico di mostrare ciò che è scomodo, lei lo associa al nichilismo spicciolo parente della violenza. Mia madre che cerca di capire cosa pensa questo figlio che si apre al mondo e se ne lascia invadere con una spregiudicatezza ingenua che fa quasi tenerezza. Avrei dovuto raccontarle troppe cose, provare a parlarle sul serio. Partendo da quella copertina e arrivando a teorizzare il significato di alcuni gesti radicali. Avrei dovuto mettere il vinile sul piatto, spiegarle i testi, farle capire cos'è il punk e come il punk si ghiacciava in quel disco. Avrei dovuto dirle troppo, e ovviamente non avrebbe capito.
Allora, ricordo, sbuffai, dissi: «Ma che ne vuoi sapé!», e mi rintanai in camera, lasciandola da sola con le sue domande che a lei sembravano legittime. Aprii il poster che compone l'intera confezione del disco e guardai l'immagine del piccolo ebreo polacco con le mani alzate in segno di resa verso il soldato nazista che gli punta il fucile contro. Credo di aver capito perfettamente chi era la vittima e chi il carnefice, e penso che il messaggio fosse proprio quello: guardate cosa l'uomo fa all'uomo. Un ammonimento fatto attraverso l'immagine della violenza più bieca. Esteticamente perfetta, psicologicamente devastante, ed emotivamente efficace. Scomoda, respingente, pura, inquietante.
Con mia madre ho parlato di altre cose interessanti. Appoggiai sul 7" la puntina del mio giradischi e mi misi in ascolto.

sabato 2 giugno 2007

HANGING ROCK #1
Autodafè. Un alibi a futura memoria – parte 1

AVVISO: QUESTO PEZZO NON VA DA NESSUNA PARTE. Nel senso che- lo sto semplicemente dicendo perché dopo non veniate a lamentarvi lasciando messaggi sulla segreteria della redazione o intasandoci le caselle mail con frasi che variano tra i due estremi 1) ah, i vostri critici musicali non valgono l’euro che gli date per scrivere quelle “elucubrazioni gratuite” (eufemismo che userete al posto di “puttanate” che invece vi sta rimbalzando a eccessiva velocità nella testa); e 2) ma chi è quel coglione che scrive sulla vostra rivista e si crede il Mr Gonzo di ’sto cazzo? In realtà se state leggendo questo pezzo la prima cosa certa è che il direttore del giornale si crede ancora – fatalmente – Carlo Magno e Don Chisciotte insieme, e ha dato l’ennesimo visto si stampi a questi quattro fogli della rubrica. Ma se non avete voglia di tutto ciò, se la vostra giornata procede bene, veloce e senza intoppi sui binari della quotidianità, se non avete violenza repressa, se volete rifugiarvi nel rassicurante mondo della musica carina, sì mi piace quel pezzo lo mandavano l’altro giorno in radio ero in macchina con Francesca che provava a farmi confessare, se volete continuare a far parte della grande famiglia “del rock club” amici di Mtv, se siete quelli che sudano nell’impegno quotidiano di un’alternativa di musica indipendente e completamente libera dalle logiche che cedono allo strapotere della distribuzione ma «in questo momento mi sento tremendamente inadeguato alla lotta», se siete alla ricerca di chi sappia confortarvi sul fatto che nonostante tutto il rock’n’roll sopravvive alla caduta degli dei, se quando scaricate i vostri mp3 scegliete nella playlist “i più scaricati”, se spolverate spesso le costudie dei vostri cd, se nei negozi di dischi vi fate guidare dalle insegne “ultime novità” o “nuove sonorità”, se siete degli ascoltatori medi – se vi rispecchiate in uno di questi profili utente allora il mio sereno consiglio è di lasciar perdere queste altre quattro colonne, più che altro per la perdita del vostro tempo, e passare tre pagine più avanti della rivista, subito dopo la pubblicità con i due atleti seminudi che calzano scarpe da ginnastica di un’infinita leggerezza e aderenza al piede, sullo sfondo di un drappeggio di sipario cromato. Lì troverete pane per i vostri denti, gentilmente offerto da Tony “aurea mediocritas” Morandi.
Vi aspetta lì, adagiato sui facili accenti positivi per i White Stripes, forte degli elogi agli Interpol proclamati in tempi non sospetti, che si crogiola delle sue bacchettate amichevoli ai cinque bravi ragazzi degli Strokes colti in fallo per un simpatico e inutile secondo album, attento a non perdersi nessuna uscita dei gruppi i cui nomi (nell’estremo tentativo di originalità) cominciano per “The” – ma non avevano smesso dopo gli anni Sessanta? I suoi articoli sono calibrati, astuti, a volta colti e tecnici (quando infarcisce il tutto con ricami verbosi come echi reverberati di chitarra a danzare sul fondo di un oceano di tastiere tremendamente seventies! e altre stronzate del tipo). Lui è lì, pensateci, nella sua stanza in affitto seduto davanti al suo pc. Una sigaretta nella mano, il telecomando dello stereo nell’altra, pronto. Pronto ad aprire il paziente di turno. Freddo, con la puzza del posacenere sulla scrivania che gli aleggia sotto il naso. Volume dell’hi-fi 15 su 30, e aspira profonde boccate mentre ascolta la prima traccia, poi la seconda, poi la terza. E tutto il resto dopo essere andato a pisciare. I suoi articoli possono essere sezionati in compartimenti stagni. E rapportati al suo ritmo biologico. Ma ci siete cascati? Li avete divorati ma anche già ampiamente digeriti? Li avete letti e siete passati alla pagina successiva senza che niente dentro di voi si sia smosso? Avete deciso di comprarlo o no ’sto benedetto cd (immaginate Tony lancinarsi nel dubbio se dare tre stellette o tre stellette e mezzo alla nuova uscita a firma Cake senza sembrare troppo generoso)? Siete d’accordo o no con la minuziosa autopsia di Doc Mediocritas? Complimenti, qualunque sia la risposta, avete vinto il pass per il backstage al concerto dei Franz Ferdinand – a proposito di musica carina.

venerdì 1 giugno 2007

Requisitoria per un inizio

La giornata comincia sempre così, a quest'ora indecente, comincia con un giorno che stenta a finire, quando è troppo tardi. Jack dorme al tepore della lampada della scrivania, io che fumo un'altra sigaretta e sottolineo a matita altre due righe, cerchio un titolo, evidenzio le parole chiave con il giallo dello Stabilo Boss.
La tabella di marcia appesa alla parete di fronte mi restituisce la verità del fatto che sono indietro: con la stesura, le traduzioni, la lettura delle fonti. E con lei non posso mentire. La Tabella è la Verità, è uno specchio che non si può attraversare.
Guardo Jack, lo sento ronfare, guardo il resto della scrivania, ground zero di a4 tra articoli italiani, inglesi, testi originali, prove di traduzione, capitoli di libri sul postpunk. Chiudo il vocabolario di inglese e la guida ai 100 dischi della storia della rock. Leggo le ultime righe su Bowie e Low. Cicco la sigaretta e soffio l'ultimo tiro sul muso di Jack, per cominciare a svegliarlo. Lei intanto dorme da più di tre ore, ma domani ci alzeremo insieme.
La giornata comincia che è ancora il giorno prima, ma continua a piacermi quest'interzona, solo noi esseri umani potevamo inventarcela, l'unico modo per rubare al tempo uno scampolo di vita in più, vivere ogni notte l'ora sfocata tra oggi e domani, perché continuiamo a non sapere scegliere.
La giornata comincia con una falsa partenza. Prendo in braccio Jack, dieci secondi dieci di coccole ipocrite, lo faccio uscire sul terrazzo, lui protesta un po', poi se ne va nella cesta dello stanzino, mentre io richiudo la finestra e me ne vado a letto.