domenica 17 giugno 2007

HANGING ROCK #1
Autodafè. Un alibi a futura memoria – parte 3

Quando dal ’77 agli inizi degli Ottanta – lasciando da parte il cancro della glam music dei capelloni impaillettati che iniziava a corroderci lo stomaco – tutti i giovani reietti volevano gridarci quanto fossimo privi di attributi, quanto ci nascondessimo dietro l’intoccabilità dell’aura rock, quando si inneggiava alla Rivolta Bianca, quando le manette non erano un problema, quando i Galli da Combattimento ci invitavano a guardarci le spalle perché la finta guerra che stavamo conducendo aveva nei giovani skin della working class britannica i nemici più audaci che ci avrebbero sorpreso a combattere per finte idee irrinuciabili, quando gli Sham 69 incitavano i ragazzi a restare uniti, forse solo allora, per un balenante attimo di reale pop-democrazia (o di quell’anarchia [sic] tanto desiderata e che sarebbe stata l’inizio e la fine di tutto), il punk ha rivelato che in fondo questo rock’n’roll – questa truffa, questa grande menzogna dove dirigere le nostre menti deviandole da tutte quelle che sarebbero dovute essere le nostre priorità vere – poteva farlo chiunque, in piena libertà, lontano dalle forzature mediatiche, dai giochetti da mercante in fiera di qualche discografico cocainomane e impotente, dalle convinzioni pseudoartistiche di qualche produttore frustrato. E un frammento di quello specchio, di quella scena che dalle periferie urbane rivendicava spazi all’interno delle mura delle città, rifletteva la luce anche nella nostra penisola, illuminando un manto maculato di realtà isolate ma dense di musica che più veloce non si può. Da Torino e Bologna a Bari, passando per il Virus di Milano, il Gran Ducato Hardcore della Toscana: fu una rapidissima scarica elettrica, con virate improvvise di tempi e accordi, partita dalla prima Negazione fino al Declino, quando la storia sociale tornava a imporre ingoi Indigesti, quando la provocazione dei Wretched si rendeva necessaria e sulla suburra romana svettava la bandiera Bloody Riot. Anche da noi ci fu chi pensò che la sopravvivenza di un vero circuito sotterraneo – dal pavimento di audiocassette casalinghe e vinili autoprodotti, dalle pareti rivestite di punkzine, dalle giornate spese nell’organizzazione di massacranti tour nella Germania ancora divisa, nella penisola scandinava (l’arrembaggio del punk all’Europa continentale), o nel tentativo di esportare il nostro hardcore oltreoceano – fosse possibile, come il lato incantato e seminascosto di una laguna artificiale dalle rive in cemento e fondali di eternit, sul sottofondo dei danzerecci cori di tutti i Kennedy Morti che intonano il più classico dei refrain: “Uccidi il povero!”.
Ma non durò più di un tiro di speed. E tutto il contorno di concerti finiti in rissa, di bottiglie spaccate su qualche testa fuori posto, di anfetamine assunte prima dell’arrivo della polizia, tutto il puro – innocente – piacere di scandalizzare qualcuno di noi borghesi troppo sensibile alla vista del tessuto nervoso, tutta l’essenza politica insita nell’autolesionismo che sfregiava i corpi magri e nudi (perché se è il nostro sangue che volete, lo avrete, ma siete disposti a pagare un prezzo così alto?), tutta la gratuità delle bestemmie e degli slogan senza futuro, tutta le urla fuori tono e fuori metro, tutta questa giostra primordiale e fai-da-te morì, vittima di se stessa e della propria rapidità incendiaria, nel frastuono atroce della metropoli, senza che il cadavere dell’enorme animale venisse mai più ritrovato. La rabbia ha poi ceduto il posto al compiacimento, al compatimento, alla posa di outsider sfigati e incompresi.